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Lavoro di cura e Servizio Sanitario Nazionale: due beni pubblici da tutelare

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Da diverso tempo si discute del tema della carenza di personale sanitario, in particolare medico ed infermieristico, fenomeno che tocca anche gli ospedali, le RSA, le RSD, le comunità, i servizi socio-assistenziali-sanitari e non ultimi i medici di medicina generale della provincia bergamasca.

Di questo fenomeno avevamo già parlato diverso tempo fa, prima che l’ondata pandemica del Covid si abbattesse sulla nostra provincia e sull’intero Paese, focalizzandoci sulla mancanza di lungimiranza nella programmazione dei fabbisogni formativi universitari che avrebbero dovuto prevedere, se non l’aumento dei fabbisogni di personale derivanti dalla cosiddetta sanità territoriale (Unità Speciali di Continuità Assistenziale e Infermieri di Famiglia e comunità in primis), quanto meno la necessità di coprire il turn over legato alla dinamica pensionistica.

Il fenomeno della pandemia da Covid ha introdotto ulteriori elementi che hanno acuito la carenza di personale. In particolare l’esperienza vissuta durante i periodi più complicati della pandemia ha creato delle ferite tra il personale sanitario più impegnato nelle cosiddette prime linee, ferite oggi difficilmente rimarginabili. Medici, infermieri e OSS in particolare si sono trovati ad affrontare un’esperienza pesantissima, con un’iniziale gestione da parte del sistema sanitario che faceva acqua da ogni parte, a partire dalla mancanza di DPI fino alla gestione della copertura dei turni di lavoro. Oltre a questo era consolidata la sensazione di dover arginare un fenomeno troppo grande e la vicinanza alla morte, in quei contesti e con quei numeri, è stato uno sforzo che umanamente non ha potuto che rendere la gestione del fenomeno ancor più complicata. Calato l’effetto adrenalinico della gestione dell’emergenza, diversi operatori sanitari hanno scelto di abbandonare appena possibile il settore, attraverso diverse strade: pensionamento appena possibile, abbandono della professione o semplicemente ricerca di luoghi di lavoro diversi e meno stressanti ove esercitare le proprie competenze. Inoltre il fenomeno del burn-out è diventato dilagante.

Nel frattempo abbiamo letto diversi interventi che hanno posto riflessioni, più in generale, sul tema del lavoro di Cura e sulla difficoltà a trovare personale disposto a prestare la propria attività in questi settori.

Va fatta una discussione che provi ad affrontare tutte le sfaccettature del problema, anche quelle più complicate rispetto all’individuazione di una soluzione. E la mobilitazione lanciata dalla FP CGIL è una risposta a queste istanze; un’iniziativa che dovrà forzatamente coinvolgere tutte le lavoratrici e i lavoratrici, cittadine e cittadini, per un rilancio vero e concreto del servizio sanitario nazionale, quale fondamentale bene comune del nostro Paese.

Da troppo tempo il lavoro di cura è stato svalorizzato e approcciato come semplice partita di costo da imputare a bilancio della spesa pubblica e di conseguenza l’imperativo è stato “risparmiare”, tramite il contenimento dei costi del personale e girando quanto più possibile questi costi sulle spalle dei cittadini.

Il contenimento dei costi del personale è avvenuto nei più svariati modi: appalti al massimo ribasso, esternalizzazioni con applicazioni di CCNL meno redditizi, aumento dei carichi di lavoro a seguito delle mancate coperture del turn over, mancati adeguamenti dei minutaggi assistenziali a fronte di condizione degli utenti sempre più complesse.

L’aumento dei costi per i cittadini è avvenuto invece per la necessità di garantire i Livelli Essenziali di Assistenza e i Livelli Essenziali di Assistenza Sociale con tempi divenuti insostenibili e attraverso il ricorso, per chi se lo può permettere, alle prestazioni in libera professione con costi decisamente superiori rispetto a quelli del ticket. Oggi questa dinamica è persino peggiorata a seguito della carenza strutturale di personale.

In alcuni settori, quelli che subiscono in modo più pesante la carenza di figure sul mercato, si è innescata una concorrenza spietata tra aziende che letteralmente si rubano i professionisti; occorre invece che le parti sociali ritornino al governo delle politiche salariali, mediante la condivisione del principio che a medesimo lavoro debba corrispondere medesimo salario e che questo sia allineato alla media europea. Esempi positivi sul nostro territorio sono gli accordi sottoscritti nelle RSA di Vertova e Nembro con cui si torna all’applicazione del CCNL Funzioni Locali per tutto il personale, anche quello successivamente assunto con CCNL Uneba; in questo modo, tramite la contrattazione, si rende più appetibile il lavoro in RSA, garantendo quanto meno un livello retributivo in linea con il settore sanitario. Se torniamo all’esempio del personale infermieristico non possiamo stupirci se oggi il settore della cooperazione sociale non trova personale, quando qualsiasi posizione in sanità pubblica o privata garantisce uno stipendio annuale di almeno il 30% superiore. Più in generale si sta assistendo a fuoriuscite di personale dal settore socio-assistenziale-sanitario verso quello più remunerativo della sanità pubblica e privata.

Dallo scorso anno abbiamo anche iniziato ad assistere alla politica delle prestazioni extra orario ordinario incentivate per diversi professionisti sanitari, con tariffe ormai consolidate di € 80/h per i medici e € 50/h per infermieri e poche altre figure sanitarie; prima con la campagna vaccinale, oggi per la riduzione delle liste di attesa create dall’emergenza pandemica e domani, può essere, per coprire la carenza endemica di figure sul mercato del lavoro; questa non può certamente essere una soluzione strutturale né per coprire le carenze di personale, né per giungere ad un incremento stipendiale essendo solamente una soluzione temporanea per gestire un’emergenza frutto di miopia del recente passato.

L’altro fronte su cui è indispensabile lavorare è quello degli appalti, in particolare quelli banditi dai comuni e che coinvolgono servizi come il SAD e l’assistenza scolastica. In questi settori lo svilimento delle condizioni retributive è più pesante che altrove, toccando forse il punto più basso con l’assistenza scolastica, settore per cui la CGIL di Bergamo si sta spendendo da anni per cercare di sanare storture inaccettabili e che è l’esempio più lampante di come il sotto finanziamento delle amministrazioni comunali scarichi sui lavoratori in appalto il contenimento dei costi tramite bandi che nulla hanno a che spartire con la qualità del servizio e la dignità del lavoro.

Non serve dunque stupirsi della difficoltà nel reperire certe figure professionali legate al lavoro di Cura.

Occorre invece iniziare a considerare il lavoro di Cura come un investimento e non semplicemente un costo.

Occorre partire dal presupposto che chi decide di lavorare nel settore della cura esprime una professionalità alta, svolgendo un ruolo delicato, siano essi infermieri, medici, assistenti scolastici, educatori, tecnici sanitari e della riabilitazione, assistenti sociali, ASA, OSS o badanti.

Occorre che al medesimo lavoro corrisponda un medesimo livello retributivo e un medesimo livello di diritti sul luogo di lavoro e che quel livello tenda ad uniformarsi con il livello europeo.

Occorre allargare il perimetro del lavoro pubblico, tendendo a farlo aderire a quello del servizio pubblico.

Occorre compiere tutte le scelte politiche, a livello locale ma soprattutto nazionale, che occorrono per valorizzare il lavoro di Cura, perché solo in questo modo è possibile tutelare i cittadini utenti/pazienti fornendo loro il miglior servizio possibile.

Roberto Rossi
segretario provinciale Funzione Pubblica CGIL Bergamo

Via Garibaldi, 3 - 24122 Bergamo (BG)

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